La bellezza di essere sacerdoti chiamati ad essere felici

In un tempo segnato da crisi vocazionali e stanchezza pastorale, riscoprire la felicità sacerdotale appare come una sfida e una speranza.

Questo articolo racconta come la gioia profonda del prete nasca da un incontro autentico con Cristo, dalla passione per il servizio, dalla comunione fraterna e dalla fedeltà quotidiana al proprio sì. Non una felicità appariscente, ma silenziosa, vera, radicata nell’amore donato.

Nel nostro tempo, in cui si parla spesso di crisi vocazionali, di stanchezza pastorale e di un certo smarrimento ecclesiale, parlare di un sacerdote felice può sembrare quasi una provocazione. Eppure, proprio in questo tempo fragile e vero, risuona con forza una certezza evangelica: il sacerdote può essere uno degli uomini più felici sulla terra, se vive la propria vocazione con un cuore integro, appassionato, e abbandonato a Dio.
La radice della felicità è l’incontro con Cristo. Ogni vocazione nasce da un incontro che cambia la vita. Non si diventa preti per convenienza, per obbligo o per prestigio. Si diventa sacerdoti perché si è stati guardati, amati e chiamati da Gesù, come Pietro sulle rive del lago.
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi». (Gv 15,16)
Quel «sì» iniziale non è un traguardo, ma un cammino che si rinnova ogni giorno, anche tra le fatiche e le incomprensioni. La gioia del sacerdote nasce dal continuare a fidarsi, anche quando tutto sembra buio.
La felicità del sacerdote non si misura in ciò che ha, ma in ciò che dona. Non costruisce carriere, ma relazioni. Non accumula beni, ma distribuisce speranza. Non cerca applausi, ma cuori da servire. Ed è proprio lì, nella radicalità del dono, che sboccia una gioia profonda. Una gioia che non è fatta di emozioni passeggere, ma di senso, di presenza, di amore. È la gioia che brilla negli occhi di un prete che confessa per ore, che accoglie i poveri, che vive tra le periferie con un sorriso sincero.
La felicità sacerdotale non è fatta di estasi continue, ma di piccole luci quotidiane. È il sorriso di un bambino dopo la Messa, è la pace ritrovata in una confessione, è la parola giusta sussurrata a un cuore in crisi.
«La gioia sacerdotale è una gioia che ha un fratello: si chiama fatica». (Papa Francesco)
Ci sono sacerdoti che si fanno in quattro per coordinare tutte le attività pastorali, che corrono da un impegno all’altro, che si consumano con il cuore pieno. Eppure, non si lamentano. Anzi, si sentono più vivi proprio quando si donano. Perché sanno che ogni gesto, ogni parola, ogni momento vissuto per gli altri ha un valore eterno.
E poi arriva la sera. Quando la giornata volge al termine e le luci si abbassano, il sacerdote torna nella sua canonica. Talvolta è solo, talvolta trova compagnia. Ma quella solitudine non fa paura, perché non è mai vuota. In quel silenzio della sera rimane qualcosa di più grande: la gioia profonda di aver vissuto pienamente. Ha dato il suo tempo, ha dato le sue energie, ha celebrato la Messa, ha ascoltato, ha consolato, ha servito il suo popolo. Ha amato. E in quel ritorno alla canonica, spesso silenzioso e discreto, torna anche la pace: la pace di chi sa di aver fatto quello che doveva fare, con il cuore, con verità. Quei sacerdoti che possiamo chiamare pazzi per Gesù e per la Chiesa.
Il sacerdote non vive per sé stesso. È chiamato ad essere tutto per tutti, e questa – lungi dall’essere una condanna – è la sua più grande libertà.
Perché nel momento in cui si perde per gli altri, si ritrova pienamente in Dio. E quando arriva la stanchezza, o la notte dell’anima – perché arriva – non è mai solo davvero. C’è sempre una sorgente alla quale tornare: la preghiera, l’Eucaristia, il silenzio, la fraternità tra confratelli.
Come ci ricorda il Canone 275 § 1 del Codice di Diritto Canonico, i chierici sono chiamati a vivere in comunione, coltivando la preghiera condivisa, la vita fraterna, e lo spirito di collaborazione.
Anche nella vita religiosa o secolare, non dobbiamo mai dimenticare quanto sia essenziale sentirsi fratelli: solo così possiamo essere più uniti, più umani, più Chiesa.
Un sacerdote non è mai solo: è parte di un corpo più grande. È in comunione con i suoi fratelli. È in comunione con la Chiesa. E questa comunione è la sua forza, la sua consolazione, la sua felicità.
La gioia del sacerdote non rimane rinchiusa nel suo cuore. Si vede, si sente, si tocca. I giovani che incontrano un prete felice iniziano a porsi domande. I fedeli si sentono accolti. I lontani si avvicinano.
Per questo è così importante che ogni sacerdote coltivi la propria gioia interiore: non per sé stesso, ma per il popolo che Dio gli ha affidato.
«Il sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù». (Curato d’Ars)
E dove c’è amore vero, la felicità non può mancare. La chiave è tutta qui: restare innamorati di Cristo e della Chiesa, sempre, e non smettere mai di servire con cuore aperto e felice.

don Bernie del Rio

condividi su